Vietnam

 

Arrivo a Saigon, ora HCMC (Ho Chi Min City, per maggiore chiarezza) alla fine di una incredibile serie di puntualitá: la mamma mi accompagna in perfetto orario alla Malpensa, il volo parte all’ora prevista ed atterra a Bangkok addirittura in anticipo, la connessione per Saigon impeccabilmente in orario e l’atterraggio come da copione: sono le dieci e dieci del 31 dicembre 2008. E qui finisce la puntualitá. Esco dall’aeroporto cercando Michel, chiedendomi come diavolo faró a trovarlo fra la ressa della gente in attesa di viaggiatori. Mi viene in mente di mandargli un SMS sul telefonino di Valentina che spero abbia in tasca lui, per chiedergli dov’é, accendo il cellulare e vedo che c’é un messaggio: sono in ritardo, sto arrivando,,,,,Cosí mi piazzo sotto la colonna numero 7 e sono io a mandargli un messaggio per dirgli dove sono! Comunque, brevissima attesa, devo ammettere, giusto il tempo di realizzare che sono passata dai 3 gradi padani ai 30 vietnamiti, con un tasso di umiditá gradevole per i pesci.

Saigon non é una cittá, é un conglomerato di motorini e di auto pazze. Edifici abbastanza bruttini, parchi pieni di gente variopinta. Mangio finalmente bene, adoro i noodles e qui ne trovo di tutti i tipi.

Dopo una giornata da bravi turisti in giro per la cittá (giornata che si conclude alle due del pomeriggio per spossatezza e scarsitá di stimoli visivi), continuiamo a fare i bravi turisti e ci iscriviamo ad un tour di due giorni sul delta del Mekong. Passiamo due giorni su e giú per i canali, barche piccole e barche grandi, mercati galleggianti e vita quotidiana di chi sul fiume ci abita e ci lavora. Chiatte cosí cariche di sabbia da non riuscire a distinguere il bordo dell’imbarcazione, tanto é a pelo dell’acqua. Barche-negozio, con una pertica sulla quale sono appese le varie mercanzie in vendita, a mó di insegna: cavoli, cipolle, frutta e tutto il resto. Barche-bar con bimba vietnamita tutta smorfiette e sorrisini, pronta per la foto e con papá pronto a venderti la solita bottiglia d’acqua a prezzo triplicato. Tutto fa parte del gioco, anche il barcaiolo che mi dá informazioni sbagliate sulla distanza del mare da lí e che del mio orologio che gira in senso antiorario é colpito solo dai piedini che si muovono sul quadrante. Tante donne a lavare panni e bambini in un’acqua di un tale colore che ti chiedi come sia possibile che non ne esca tutto marrone. Mi piace la sensazione di pace e di calma che mi danno questi posti, nonostante il rumore del motore della barca che sembra una mitragliatrice, triste pensiero che da queste parti viene spontaneo. La gente sorride e anche le immancabili visite alla fabbrica delle caramelle di cocco e della carta di riso si rivelano sopportabili. Rientriamo a Saigon per un’ultima notte, domani si parte per Hoi An, sleeper bus, 24 ore di viaggio, piú di mille chilometri, vabbé, andiamo.

In Vietnam si puó viaggiare in molti modi, la fantasia qui non manca. Uno di questi modi é lo sleeper bus, in pratica un autobus con i letti. Ma letti letti, non sedili reclinabili. L’unica differenza con un letto vero é che la spalliera é obliquamente fissa, perché sotto arrivano i piedi di chi sta dietro. Purtroppo sono a misura di vietnamita o poco piú, sia in lunghezza che in larghezza. Ne abbiamo preso uno per le nostre 24 ore di viaggio, da Saigon ad Hoi An. Saliamo e cominciamo a sbagliare tutto: ci mettiamo in fila uno dietro l’altro, cosí risulta difficile chiacchierare. Poi sale una famigliola con due bimbi piccoli, e noi cogliamo l’occasione per spostarci indietro, Michel e Valentina al piano di sopra (giá, ho dimenticato di dire che i letti sono a due piani e su tre file) ed io di sotto. Peró cosí siamo proprio sopra le ruote e le strade sono pessime. Io sto proprio dietro il bimbo di 4 anni, dopo mezz’ora non resisto e migro anch’io al piano di sopra, ultimo letto in fondo a destra.  A parte gli scossoni, é veramente divertrente viaggiare semisdraiati guardando il panorama. Le onnipresenti risaie cedono il posto a terre piú brulle, la costa é rocciosa, molte barche da pesca, tutte uguali, tutte azzurre. Alcuni cimiteri sparsi qua e lá, come se avessero ogni tanto deciso di fare una coltivazione di tombe. Sulle spiagge compaiono i primi cestini, una divertente imbarcazione che poi prenderemo anche noi ad Hoi An. Partiamo alle otto di mattina ed alle otto di sera, a Na Trang, cambiamo bus. Sempre sleeper, ma un po’ piú vecchio. Adesso siamo diventati esperti, ci accaparriamo i primi tre letti, uno per fila, in alto: cosí possiamo chiacchierare e soprattutto cacciare i piedi oltre il bordo del lettino, perché non abbiamo nessuno davanti. Nel primo bus la toilette era rotta, in questo secondo neanche esiste, cosí ogni tanto sono previste delle soste e ci si puó sgranchire le gambe, o fumare una sigaretta, oltre all’immancabile pipí. Verso le sei comincia a fare chiaro e ritroviamo le risaie: cosí possiamo essere sicuri che anche per oggi il Vietnam é qui. Arriviamo dopo le otto del mattino, tutto nuvolo, assaliti dai motorini che vorrebbero portarci all’albergo sul sellino di dietro, noi ed i bagagli, asserendo che qui non ci sono taxi, Pane quotidiano, da queste parti. Hoi An é una cittá cinese nel mezzo del Vietnam, molto turistica, con vecchie case ben conservate, cosa che invece é rara da queste parti perché tra i francesi e gli americani é stata una bella lotta a chi distruggeva di piú. Con l’alta marea le strade lungo il fiume (immancabile) si inondano, cosí bisogna fare bene i calcoli se si vuole andare a mangiare in un ristorante sull’acqua senza togliersi le scarpe. Il battello che abbiamo preso per tornare in cittá dalla spiaggia non ha tenuto conto dell’alta marea e ci ha rimesso il fumaiolo, passando sotto al ponte. Dopo due giorni, impavidi, ripartiamo in bus per Hué, questa volta un bus di linea, sono solo quattro ore! Arriviamo ed é tutto grigio, e ci sono i motorini, e....ok, siamo ancora in Vietnam, Bella Hué, imperiale, possente, peccato che non vedano il sole dal 24 dicembre (siamo al 7 gennaio), e che non lo vedranno ancora per i tre giorni che passeremo qui. Dobbiamo arrivare ad Hanoi,  questa volta in aereo, per rivedere il cielo azzurro. Hanoi é incasinata con il traffico come Saigon, l’unica differenza é che qui riescono anche ad imbottigliarsi e nessuno piú si muove. I marciapiedi non sono fatti per marciarci con i piedi: servono come parcheggio per le moto, per aggiustare macchine da cucire, per vendere le cose piú improbabili (e che sicuramente non ci si aspetterebbe di trovare su un marciapiede), per mangiarci e per sedersi sulle sedioline mignon a fare la calza, a lavare (sigh) la verdura, a friggere quello che poi qualcuno osa anche mangiare, nonostante l’untume ben poco appetitoso. E allora dove si cammina? Fondamentalmente, non si cammina, solo i turisti lo fanno. I vietnamiti hanno sempre il sedere su qualcosa: bici, moto, auto (rare, per fortuna), ciclotaxi, mototaxi, barca, seggiolina. Camminano solo le venditrici col bilancere su una spalla, capolavoro di equilibrismo e di santa pazienza, e pochi altri. Attraversare la strada é inquietante le prime volte, poi diventa divertente: si comincia andando in obliquo verso il lato opposto, inutile guardare se arriva qualcuno e da che parte arriva, tanto é sempre pieno di veicoli e molti vanno anche contromano. Si prosegue verso il centro della strada, lentamente, senza fermarsi. Guai a fermarsi, si é perduti! Il mare di motorini si apre intorno all’attraversatore e quando quelli che passano dietro sono piú di quelli che passano davanti si é quasi in salvo. Messo poi piede sul marciapiede dalla parte opposta, non é ancora finita, perché per camminare bisogna ridiscendere e costeggiarlo. Non si capisce bene se si costeggia il marciapiede o il fiume di moto. Comunque sia, un bell’esercizio di slalom. Il tutto accompagnato da un frastuono assordante perché, dopo quello di andare in giro in moto, il secondo divertimento nazionale é suonare il clacson.

Sapa

Sapa, ah…Sapa! Un sogno! Sapa sta in montagna, nel nord-ovest del Vietnam, e giá questa é un’ottima cosa. Guardo il meteo e vedo che prervede sole, con temperature dai 4 ai 17 gradi, guardo la guida e leggo che da lí si possono fare un sacco di passeggiate, in mezzo alle risaie a gradoni, per raggiungere i villaggi delle tribú di montagna. Cosa posso volere di piú? Faccio la mia valigia piccola mettendoci dentro le scarpe da montagna, due golf, tanto entusiasmo e parto col treno della notte: otto ore e mezzo per  350 chilometri, un’andatura perfettamente lenta per sonnecchiare sulla cuccetta abbastanza comoda, Arrivo a Lao Cai alle cinque del mattino, i gradi probabilmente sono meno di quattro, ma va bene lo stesso, Un mini pullmino ci porta a Sapa, mancano ancora 38 chilometri, su e giú, i fari illuminano bellissimi boschi. Poi non illuminano piú niente, nebbia fitta. Arriviamo a Sapa nel nebbione, in un albergo che come unica fonte di riscaldamento prevede la termocoperta. La finestra della xcamera é anche aperta, per meglio gustare l’aria di montagna...Riesco a farmi capire sorridendo, anche se la pazienza sta per finire, e pagando un supplemento ottengo una stufetta elettrica. Alle nove si parte per il trekking, siamo in sette, quattro australiani, due estoni ed io, tutti belli alti dietro un frugoletto vivacissimo di nome Su: ha 18 anni, é una ragazzina molto carina e molto bassina, ed ha una figlia di cinque mesi! Scopro che a Sapa in montagna si va al contrario: prima si scende e poi si sale. E si scende proprio molto, ma molto, e continuo a pensare che poi dovró risalire, e metá del divertimento se ne va. L’altra metá se ne va quando scopro che i tanto decantati villaggi delle tribú di montagna sono una bancarella dietro l’altra. E dire che ormai di mondo ne ho girato abbastanza per sapere che va sempre a finire cosí, eppure no, io mi illudo sempre. Per fortuna verso mezzogiorno la nebbia si dirada ed esce il sole, cosa che ci permette di vedere le risaie a gradoni, senza riso perché la stagione é troppo fredda per poterlo coltivare: alcune mantengono l’acqua per non far gelare la terra. Torniamo in albergo alle due del pomeriggio, faccio un salto in paese a vedere l’altrettanto tanto decantato mercato di prodotti tipici delle tribú di montagna e vengo asssalita da venditrici di ogni etá che pretendono io compri mercanzie di tutti i tipi. Anche questo mi pare déja vu. Basta, mi caccio sotto la termocoperta, con la stufetta ai piedi del letto. Il giorno dopo si replica, l’unica variante é che la passeggiata dura un po’ di piú. A me piace molto camminare, a me piace molto la montagna, sono riuscita anche a godermi questa breve parentesi a Sapa, peró stasera prendo il treno per Hanoi e domani l’aereo per Luang Parabang senza molta nostalgia di Sapa.